IL PAESAGGIO COME STORIA

Uno dei pionieri dell’anima dei luoghi e dell’”ecologia urbana” è stato senz’altro Patrick Geddes (1854-1932), un docente di botanica, che è diventato l’antesignano dell’architettura legata alla storia e alla cultura del territorio. È l’autore dell’opera Città in evoluzione (1914) (Il Saggiatore, Milano 1970), in cui l’urbanistica viene rapportata innanzitutto ai caratteri locali, con le loro tradizioni e la natura dei luoghi. Un  antesignano del rispetto del paesaggio, inteso come un “organismo vivente” e quindi come il risultato  delle diverse stratificazioni culturali presenti in un determinato luogo. 

Tutto questo va sotto il nome di Eutopia (buon luogo, il contrario di Utopia che significa nessun luogo), espresso negli anni Venti del Novecento, allorquando nessuno parlava di pianificazione territoriale e di riscoperta del genius loci. Ciò che oggi ormai viene acclarato dai maggiori urbanisti, anche se la modernità, attraverso la rivoluzione industriale, ha tentato di annullare qualsiasi riferimento all’anima dei luoghi e quindi a considerare il paesaggio, sia urbano che rurale, come espressione della storia dell’uomo e quindi della sua cultura e della sua civiltà. Con Patrick Geddes, per la prima volta e in maniera inedita, si poneva l’attenzione sui sistemi viventi come fonti di risorse rinnovabili e come sintetizzatori di energia solare radiante.  In altre parole la città doveva rapportarsi al territorio e alle sue potenzialità intrinseche, sia sul piano economico che culturale. In questo senso si affermava il “carattere locale”, su cui ogni città doveva basarsi e rapportare il suo sviluppo e la sua crescita. Ciò che lo sviluppo industriale tendeva a cancellare e a distruggere, in nome del progresso e della modernità. Del resto, scrive Carlo Tosco nel suo libro Il paesaggio come storia (il Mulino, Bologna 2007): “Erano gli anni del mito della modernizzazione, di tumultuosa edilizia e infrastrutturale, di rinnovata fiducia negli strumenti della pianificazione, le fragili tracce storiche del paesaggio erano violate da un’”urbanistica opulenta”, nel mito della grande scala, delle infrastrutture interregionali, delle geometrie uniformi che occupavano le nuove aree urbanizzate, imposte dai vantaggi di mercato dell’edilizia prefabbricata. Al centro degli interessi teorici si collocavano ovviamente i fenomeni urbani e industriali, mentre le campagne divenivano uno spazio arretrato da conquistare alla modernità” (Tosco, 2016, p. 82). Purtroppo, afferma Raffaele Milani:  “In questi anni campagna e città si assemblano in uno spazio misto, ibrido, senza  anima,  quell’anima che invece  hanno sempre avuto. È la fine dell’identità dei luoghi, tutti uguali ovunque, dall’Europa al Nord America e all’Oriente. Si è affermata, tra il degrado, l’indifferenza e lo stile uniforme, la rinuncia alla bellezza, quella bellezza fatta di cultura materiale, di lavoro umano costruito per secoli sul riconoscimento simbolico, visivo, tecnico, in un incontro tra etica ed estetica. Quando un territorio o una città perdono i propri riferimenti storici, culturali, ambientali, rischiano il disordine più orribile. Essi abbandonano l’orientamento della civiltà. La campagna, la città, gli spazi in generale, una volta perduta la storia e la cultura, sono destinati a cadere nell’oscurità e nel nulla” (Milani, 2008, p. 52).

  Bisogna giungere all’inizio degli anni Settanta per incominciare a parlare di estetica del paesaggio, di pianificazione territoriale, di conservazione e valorizzazione dei centri storici, di riscoperta dell’anima dei luoghi, grazie a studi e ricerche di Rosario Assunto, che nel 1973 pubblicò il suo libro: Il paesaggio e l’estetica. Arte, Critica e Filosofia (Giannini, Napoli 1973), in cui per la prima volta  il paesaggio veniva equiparato al concetto di estetica e quindi come espressione del bello, di cui il giardino era la massima espressione , come manifestazione di un piacere disinteressato dell’uomo. L’analisi di R. Assunto muove dalla fissazione della  spazialità  e della temporalità  proprie del paesaggio. Spazio non statico ma dinamico, vissuto dall’uomo, insieme limitato ed aperto, tanto da fondere nel concetto di paesaggio due ordini temporali molti diversi, quello della natura, con i suoi cicli di lunga durata, e quello della storia umana, con le sue diverse stratificazioni culturali.  Un paesaggio, quindi, in divenire, che presenta testimonianze non solo del passato, ma anche del presente, per poi essere proiettato nel futuro, quasi in una dimensione utopica. In altri termini il paesaggio come categoria estetica,  come valore percettivo della natura (locus amoenus) da parte dell’uomo, ma soprattutto come forma di cultura. Da Rosario Assunto nascerà una vera e propria scuola di “paesaggisti” o teorici dell’estetica del paesaggio, fra cui  massimo Massimo Quaini,  Paolo D’Angelo, Raffaele Milani, Massimo Venturi Ferriolo, Luisa Bonisio, ecc. Autori che nelle loro opere il paesaggio viene considerato nella sua dimensione evocativa, come spazio di percezione artistica, come contenitore di misti, sogni, emozioni (Quaini); come identità estetica dei luoghi, come espressione della individualità ambientale dei singoli luoghi che determina l’aspetto paesaggistico (D’Angelo);  come categoria estetica e valore percettivo della natura (Milani); il paesaggio come progetto etico ed estetico insieme, al fine di recuperare di ogni luogo, sul piano etico, il genius loci (Venturi Ferriolo); il paesaggio come luogo dell’abitare, come espressione di una cultura, come prodotto di una storia insediativa, come intersezione tra territorio e comunità degli abitanti (Bonisio). Tutto questo grazie anche  agli studi e alle riflessioni  di uomini come Georg Simmel,  Rainer Maria Rilke, Joachim Ritter, Gordon Cullen,  Kevin Lynch, quest’ultimo autore dell’opera  L’immagine della città (Marsilio, Padova 1964), in cui “l’idea di “figurabilità” (imageability) diviene un concetto base, definito come la capacità di un oggetto fisico di evocare nell’osservatore un’immagine vigorosa, potentemente strutturata.  All’esperienza spaziale è riconosciuto un carattere “costruttivista”, una percezione attiva, che crea immagini dotate di coerenza e autonomia culturale” (Tosco, 2007, p. 89). In questo modo si dà alla popolazione l’opportunità di allargare lo sguardo dalla città all’ambiente extraurbano, alla ricerca di un “senso del territorio”. In Italia le prime resistenze contro l’urbanizzazione selvaggia del suolo e quindi contro la distruzione del paesaggio, si ebbero con la nascita, nel 1955, di Italia Nostra, fondata da Umberto Zanotti Bianco, ma soprattutto attraverso la sensibilizzazione di uomini,  provenienti anche dal cinema, come P. P. Pasolini, che incominciarono a denunciare la distruzione del paesaggio e soprattutto dei centri storici, che negli anni Cinquanta e Sessanta, ormai erano abbandonati al loro triste destino. Uomini come Giorgio Bassani, Antonio Cederna, Leonardo  Borgese, che incominciarono  a parlare per la prima volta di beni culturali da salvare e da conservare, di tutela del paesaggio e di valorizzazione dell’ambiente.  Intanto nel 1960 si aveva la Carta di Gubbio sulla salvaguardia dei centri storici e nel 1967 le denunce della Commissione parlamentare Franceschini, incaricata di indagare lo stato dei beni culturali nazionali. Per poi giungere,  nel 1999, al Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali;  nel 2000, alla Convenzione Europea del Paesaggio e, nel 2004, al Codice dei beni culturali e del paesaggio, in cui il paesaggio è ormai riconosciuto come un bene comune, un diritto delle popolazioni, aperto senza confini alla percezione di tutti. A questo proposito bisogna  affermare che la Convenzione Europea del Paesaggio, firmata a Firenze il 19 Luglio 2000, da quasi tutti i Paesi della Comunità Europea, afferma nel suo Preambolo che il paesaggio “rappresenta una componente fondamentale del patrimonio culturale e naturale dell’Europa”, come “una ricchezza condivisa della civiltà europea, dove le componenti naturali e quelle antropiche concorrono alla sua formazione. Si tratta di un patrimonio comune, di un ecosistema e di un sistema di beni culturali affidato alle popolazioni” (Tosco, 2014, p. 80). Mentre il Codice dei beni culturali e del paesaggio pone in risalto, oltre che l’importanza del patrimonio culturale in generale, quanto la tutela e la valorizzazione di esso nell’ambito delle leggi emaniate delle singole regioni, che si devono dotare di Piani paesaggistici, di cui però ancora poche regioni  sono in possesso, fra cui la Puglia e la Toscana. Solo recentemente, con l’intervento dell’UNESCO, la gestione dei beni culturali è diventata un patrimonio universale, in quanto espressione dell’identità della nazione. Identità di cui oggi sono rappresentate dalla World Heritage List, che è il catalogo dei siti dichiarati dall’UNESCO patrimonio culturale dell’umanità, di cui l’Italia ha il maggior numero (46), fra cui il sito longobardo del Santuario di San Michele a Monte Sant’Angelo (2011).  Intanto nel 1979 veniva pubblicato il libro di A. M. Norberg-Schulz , Genius Loci: paesaggio, ambiente, architettura (Electa, Milano 1979), in cui dava nuovo lustro ad un concetto antico, con tutto l’inevitabile bagaglio di citazioni mitologiche modernizzate. Con Norbert-Schulz l’architetto era chiamato a divenire un interprete dei luoghi, anche se gli strumenti analitici e i linguaggi critici di cui disponeva non sempre risultavano all’altezza del compito.  Nello stesso tempo il problema dei centri storici acquistava in Italia una maggiore solidità conoscitiva, tanto che lo studioso Saverio Muratori ne faceva una propria battaglia, per salvare dal degrado i tantissimi centri storici italiani ormai del tutto abbandonati e privi di vita. Inoltre poneva in essere il problema dell’abitare, affermando, che: “Abitare  è una funzione psicologica complessa che richiede la necessità dell’uomo di orientarsi e identificarsi in un ambiente, di sentirlo suo, di riconoscerlo e in esso di riconoscersi”. In questo senso la città è anche l’espressione di un territorio, della sua storia e della sua cultura. In altri termini il paesaggio come storia. Nello stesso tempo, nell’ambito dell’architettura e dell’urbanistica, si forma una vera e propria “cultura territorialista”, che fa capo ad Alberto Magnaghi, autore del libro  Il progetto locale (Einaudi, Torino 2000), in cui “il territorio viene concepito come prodotto storico di processi coevolutivi di lunga durata tra insediamento umano e ambiente, tra natura e cultura, ad opera di successivi e stratificati cicli di civilizzazione. Questi processi producono un insieme di luoghi dotati di profondità temporale, di identità, di caratteri tipologici, di individualità: dunque sistemi viventi ad alta complessità” (Magnaghi, 2010, pp. 24-25). Tutto ciò è importante in quanto mette in primo piano la rappresentazione identitaria del territorio e quindi la conoscenza dei luoghi, la loro specificità storica, oltre che culturale.

Intanto in questo percorso prende forma la concezione del paesaggio come “metafora teatrale”, portato avanti da Eugenio Turri, che ha dedicato al paesaggio vari libri, fra cui  Antropologia del paesaggio, (Edizioni di Comunità, Milano 1983),  Il paesaggio come teatro (Marsilio, Venezia 1992), Il paesaggio e il silenzio (Marsilio, Venezia 2004).  Con Eugenio Tutti la “metafora teatrale” si presta a valorizzare la percezione scenica del paesaggio, dove l’uomo è riconosciuto come spettatore e insieme attore del paesaggio, in quanto partecipa attivamente alla sua formazione. In altri termini “gli elementi che compongono un ambiente sono investiti di valori culturali per le popolazioni insediate e stabiliscono forti relazioni con il sistema territoriale circostante. Si attua così quel processo che i semiologi definiscono di  significazione,  di attribuzione cioè di particolari significati elementi della natura e del cosmo” (Tosco, 2016, pp. 103-104).

Negli ultimi decenni gli studi sulle stratificazioni del territorio hanno fatto progressi importanti. Infatti, oggi si parla di microstoria, di longue durée,  di ecologia del paesaggio. E questo anche in conseguenza  dell’ascesa di movimenti ecologisti e di un rinnovato impegno politico per uno sviluppo sostenibile. In altri termini si è avuto, per la prima volta, un incontro tra l’ecologia, intesa come difesa del territorio e la difesa del paesaggio, visto come il risultato storiografico dell’azione dell’uomo verso la natura, trasformandola in ambiente urbanistico. In questo senso ogni luogo non è altro che l’espressione della civiltà e della cultura dell’uomo, diventato custode del patrimonio culturale del luogo stesso. In altri termini il paesaggio è un grande “archivio della cultura materiale”, che attende di essere studiato, catalogato, tutelato e valorizzato.  È ciò che uno storico dovrebbe fare attraverso la sua opera, che è sempre una riscoperta della propria e altrui cultura e civiltà. Infatti, l’eredità dei paesaggi è una ricchezza che spetta in primo luogo allo storico valorizzare e la salvezza del patrimonio culturale passa attraverso il suo riconoscimento, non solo da parte dello storico, ma soprattutto da parte della popolazione, a cui è destinato il compito di difenderlo, ma soprattutto di valorizzarlo attraverso azioni di sviluppo e di partecipazione attiva. Senza una presa di coscienza del proprio patrimonio culturale non vi è futuro, né crescita sostenibile. Afferma a tale proposito Raffaele Milani nel  suo libro L’arte del paesaggio: “Perdere la memoria dei luoghi vuol dire perdere la memoria della bellezza che è connaturata allo spirito della terra”.

 

                                                              GIUSEPPE PIEMONTESE
Società di Storia Patria per la Puglia

 

 

 

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