CONTADINI E BRACCIANTI NEL GARGANO DEI BRIGANTI DI MICHELE EUGENIO DI CARLO

Ho letto con interesse il volume pubblicato da Michele Eugenio Di Carlo su  Contadini e braccianti nel Gargano dei briganti. Dalla caduta del Regno delle Due Sicilie ai fatti accaduti a  Vieste il 27 e 28 luglio 1861 (Edizioni del Poggio, Poggia Imperiale 2015). Un  testo che ha come obiettivo l’analisi socio-economica del Gargano negli anni che precedono e seguono l’Unità d’Italia, dal 1859 fino al 1861, con specifico riferimento agli avvenimenti succeduti a Vieste  il 27 luglio del 1861, in cui furono trucidati  nove cittadini del luogo, ad opera dei briganti, chiamati, a quanto pare, da signorotti locali per vendette personali.

Secondo l’Autore, il brigantaggio meridionale dovrebbe essere inquadrato come una “rivolta sociale ed economica” della gente meridionale, a causa delle condizioni misere in cui la maggior parte della popolazione viveva, in uno stato di stenti e di privazione di ogni genere.  Rivolta che purtroppo non venne considerata dall’esercito piemontese, che adottò verso i briganti una dura repressione, tale da creare le basi per vendette di entrambe le fazioni: da una parte i briganti e molti contadini delusi dal Governo e dalla difficile situazione economica che si creò, e dall’altra parte l’aristocrazia locale e i proprietari terrieri, che utilizzeranno il brigantaggio come un’arma da usare contro l’oppressione piemontese. Gli avvenimenti di Vieste danno a Di Carlo l’opportunità di esaminare le origini del brigantaggio garganico e meridionale, attraverso gli studi di autorevoli autori,  fra cui F. Molfese, A. Lucarelli, T. Pedio, G. Fortunato, T. Nardella, P. Soccio, G. Clemente, M. Siena, M. Della Malva e il sottoscritto. Ma al di là dei giudizi storiografici di tali autori, il De Carlo si serve innanzitutto di documenti riguardanti la realtà garganica, a cavallo dell’Unità d’Italia, 1859-1861, consultando principalmente alcuni manoscritti di autori anonimi riguardanti i fatti di Vieste, come per esempio le Memorie di A.G.B. Perrone (1859), la documentazione riportata da don Marco Della Malva, nonché i documenti consultati negli Archivi di Stato  di Bari, Lucera, Foggia, Potenza e presso l’Istituto Storico Italiano per l’Età  Moderna e Contemporanea, nonché  il Fondo Ricasoli, il Carteggio Cavour e le varie redazioni della Commissione parlamentare d’inchiesta del brigantaggio. Quindi un corpus storico al quanto consistente, che ha permesso all’Autore di scandagliare la situazione politico-economica prima e dopo l’Unità d’Italia, con uno specifico riferimento al fenomeno del brigantaggio meridionale, visto non più come un fenomeno delinquenziale, ma come momento di “rivolta sociale”, contro una situazione di esistenza misera e di perdurante ingiustizia sociale, perpetrate non solo prima dell’Unità d’Italia, ad opera dei “baroni” e dei “feudatari” dell’epoca,     quanto, dopo l’Unità d’Italia, ad opera della borghesia terriera, che si incarnò allora nei cosiddetti “galantuomini”.

Briganti catturati dall’esercito piemontese.

 L’Unità d’Italia, scrivo nel mio libro su I Galantuomini. Il Gargano dall’Unità d’Italia ad oggi  (Bastogi, Foggia 2007), accentuò questa differenziazione sociale, che si mantenne tale fino alla vigilia della prima guerra mondiale, creando così tensioni e lotte sociali, che si manifesteranno, in seguito, nelle usurpazioni del demanio pubblico da parte dei proprietari terrieri, i cosiddetti “galantuomini”, nell’abolizione degli usi civici,  nelle lotte contadine di fine secolo e nelle occupazioni delle terre. Contro i contadini e le amministrazioni comunali saranno sempre i vecchi feudatari, ormai diventati borghesi, galantuomini e benestanti, i quali  saranno in prima fila nella recinzione di masserie, “difese”, “parchi” e simili, su cui non sempre potevano vantare titoli legittimi di possesso: usurpazioni, vere o presunte, che divennero così motivo di tensioni sociali acutissime che spesso esplosero in sollevazioni popolari ed assalti alle proprietà contestate” (Piemontese, 2007, p. 6). A tale proposito il Di Carlo afferma che: “Le rivolte delle masse contadine furono nell’estate 1860 dettate da secolari motivi di contrasto con la nobiltà e con la subentrata borghesia agraria a causa delle questioni demaniali, inerenti principalmente l’uso e la proprietà dei terreni demaniali usurpati e la reintegra

Uccisioni di briganti nelle campagne meridionali

negli usi civici negati. E, comunque, queste rivendicazioni sociali furono prive di indirizzo politico clericale e borbonico e per lo più furono isolate, incerte, occasionali, frammentate e, quindi, facilmente reprimibili dalle truppe garibaldine e dalla Guardia Nazionale” (Di Carlo, 2015, p. 71).  Inoltre il fenomeno del brigantaggio e quindi della “rivolta sociale e politica” dei contadini e dei braccianti, fu la conseguenza anche del fallimento della quotizzazione dei demani ai contadini, quale strumento sociale idoneo per creare le cosiddette piccole proprietà e quindi sollevare il tenore di vita della popolazione garganica, che quasi per il 90% era contadina e bracciante. Di tutto ciò ne approfittò la borghesia terriera, che attraverso le usurpazioni e il potere politico divenne  la classe egemone e quindi la classe in cui tutto il potere politico e istituzionale si identificava. A tale proposito giustamente il Di Carlo scrive che le rivolte dei contadini nell’anno 1861 non sono altro che rivolte contro la classe padronale dei “galantuomini”, i quali, riferendosi ad una memoria del 1838, avevano usurpati più di 12.000 ettari di terreni demaniali appartenenti a varie città del Gargano, fra cui San Marco in Lamis e Monte Sant’Angelo. Anche se, subito dopo l’Unità d’Italia, Rebecchi, in lotta con la famiglia Basso, appartenente alla ricca borghesia terriera garganica, aveva denunciato tutto ciò, in un contesto difficile, a ripristinare gli usi civici da tempo usurpati da famiglie potenti e autorevoli locali. Per questo il Rebecchi sarà oggetto di minacce di ogni genere e “assai discusso” da parte della borghesia terriera locale.  In questo clima di gravi tensioni sociali e politiche si inquadrano gli avvenimenti del 27 luglio del 1861 a Vieste, in cui furono uccisi nove contadini dai briganti, chiamati proprio dai signorotti locali per punire chi collaborava con i piemontesi e i liberali.

      Tuttavia le persecuzioni di contadini non si fermarono con la fine del brigantaggio. Così scrivevo nel libro I Galantuomini (2007): “Ad ogni eccidio faceva seguito la repressione, che si manifestava attraverso centinaia di arresti e persecuzioni. Tutti questi episodi erano espressione di una mentalità padronale che considerava il bracciante semplice schiavo e che rifiutava di trattare con i contadini. Inoltre la lotta acquistava anche un significato politico, in quanto gli agrari vedevano in gioco il loro potere, il loro prestigio, tutta una organizzazione economica e sociale, che aveva retto fino ad allora il mondo feudale meridionale” (Piemontese, 2007, p. 26). A tale proposito molto interessanti sono le osservazioni di Di Carlo, nel dire che: “Le vere cause sociali del brigantaggio, anche se abbondantemente spiegate ed illustrate da politici, scrittori, meridionalisti, giornalisti, furono ignorate, occultate, tenute al riparo del giudizio critico sotto la coltre dell’oblio, per le nuove generazioni meridionali non venissero a conoscenza delle loro umilianti origini e continuassero tranquillamente ad essere utilizzate da un sistema politico ed economico funzionale allo sviluppo dei territori del Centro e del Nord” (Di Carlo, 2015, p. 183). Osservazioni che erano già state scritte nella Commissione parlamentare d’inchiesta sul brigantaggio, del 1862, in cui vi si affermava che: “Il brigantaggio non era altro che la rivolta popolare del basso popolo contro la borghesia terriera che aveva usurpato le terre demaniali sulle quali i contadini accampavano diritti dalla Prammatica XXIV  De Amministratione Universitatum  del 23 febbraio 1792 e dalle successive napoleoniche leggi di eversione della feudalità” (Di Carlo, 2015, p. 187). “Conclusioni che, afferma Di Carlo,  non potevano piacere  a moderati e liberali, seppur meridionali, che spesso provenivano per ceto da quella borghesia che avrebbe dovuto cedere le terre usurpate e farle quotizzare a favore di contadini e braccianti. Conclusioni che non piacevano al Governo, che aveva politicamente scelto una linea di conciliazione con la borghesia agraria, anche di stampo borbonico” (Di Carlo, 2015, p. 187).

 

                                                GIUSEPPE PIEMONTESE
Società di Storia Patria per la Puglia

 

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